L’EDM è morta. L’ha uccisa l’EDM

“La conservazione delle differenze e variazioni individuali favorevoli e la distruzione di quelle nocive sono state da me chiamate “selezione naturale” o “sopravvivenza del più adatto””

Charles Darwin, “L’origine delle specie”, 1859

Quando nasce un’idea forte, diciamo funzionale, nel giro di un tempo più o meno breve si impone e diventa dominante. L’idea può essere una mutazione genetica, come avviene in natura e come spiegato nella teoria della selezione naturale di Darwin che tutti abbiamo studiato a scuola (quella citata in apertura) e che regola l’evoluzione della vita sulla Terra, o può essere, in maniera assolutamente irrilevante per l’universo ma molto importante per noi inguaribili appassionati, qualcosa che dà una scossa alla musica, facendole prendere direzioni inaspettate. Nel caso della musica dance, questa idea è stata il risultato, come sempre, della somma di diversi fattori, che ha portato all’avvento della cosiddetta EDM, Electronic Dance Music intesa non nella sua vasta e generica traduzione, ma nell’identificazione di questo termine con quello specifico stile massimalista fatto di synth potenti, strutture ben definite, batterie stentoree e drop devastanti. Un successo clamoroso, innegabile, che ha portato dei cambiamenti rapidi e massicci in tutto il mondo della musica: la dance in pochi anni è diventata protagonista sui mainstage dei festival, si è intersecata con il pop invadendo le radio e le classifiche, ha esondato prepotentemente dal mondo dei club per diventare a tutti gli effetti fenomeno di costume, rendendo i dj le vere superstar del ventunesimo secolo. Me ne sono accorto quando ho visto i Daft Punk al Coachella o al Traffic Festival a Torino, quando ho visto la Swedish House Mafia riempire il Madison Square Garden di New York, David Guetta reclamizzare orologisui cartelloni giganteschi del centro chic di Beirut, o davanti a un pubblico sterminato sotto la Tour Eiffel. Me ne accorgo al Tomorrowland o riguardando lo show di Major Lazer a Cuba.Naturalmente tutto questo ha suscitato entusiasmi sconvolgenti e critiche altrettanto feroci: è una mutazione imprevista, e c’è chi non l’ha mai vista di buon occhio. Un po’ per abitudine alla critica facile verso ciò che ha successo, un po’ per integralismo, un po’ – banalmente – perché è legittimo che possa non piacere. Ma tralasciando un giudizio di tipo strettamente soggettivo, e mettendo da parte anche valutazioni di ordine estetico, un fatto è oggettivo e incontestabile: l’EDM è un genere estremamente popolare, i numeri e i riscontri di una larga fascia di appassionati in tutto il mondo lo dimostrano. Ai festival, nei club, nei risultati delle vendite dei dischi, degli ascolti in streaming, delle visualizzazioni e delle interazioni social. È musica di successo. Piace. Con buona pace dei detrattori che ne auspicano il declino e la scomparsa ogni tre mesi. Ma come tutte le mutazioni, anzi come tutte le idee felici in un mondo che corre velocissimo, si tratta di una formula che è stata sintetizzata e ricopiata fedelmente fino a divenire inflazionata. Build up-break-drop-repeat. Fino alla noia. Così è stato negli anni passati, mentre l’accanimento di chi non ha mai sopportato il genere (e il suo successo) ironizzava su una “musica tutta uguale” (in certi casi, con buona ragione).

Eppure, chi auspicava la morte dell’EDM (“sta morendo”, “ormai è alla fine”, “il fenomeno sta passando”) ancora non è stato accontentato. Stanno ancora aspettando che il cadavere passi sul fiume. Ma il cadavere non esiste nemmeno, e sapete perché? Perché la selezione naturale genera mutazioni funzionali. La dance ha avuto così tanto successo da riuscire a coinvolgere prestigiose star del pop: Kelly Rowland, Kelis, Sia, John Legend. Poi però è successo qualcos’altro. Il peso discografico della dance ha superato quello del pop, e così se prima erano e popstar ad essere chiamate, ora sono loro a chiamare. Se Avicii chiamava Aloe Blacc soltanto quattro anni fa, due anni più tardi erano i Coldplay a chiamare l’enfant prodige svedese per produrre singoli di successo. Beyoncé aveva preso un beat di Major Lazer ancora prima. Justin Bieber si è fatto produrre buona parte dell’album da Skrillex, con un effetto di “rinascita artistica” che non è passato inosservato. E tornando ai Coldplay, la collaborazione con The Chainsmokers non sembra essere un classico featuring, quanto piuttosto un’idea scritta a quattro mani. Calvin Harris, ne parlavo pochi giorni fa, ha messo via cassoni e synth da un paio d’anni ormai, e si è presentato con una hit dal tiro decisamente funk insieme a un idolo della musica più cool come Frank Ocean.

Insomma, prima l’EDM chiedeva una mano al pop, poi il meccanimso si è ribaltato, ora le carte in tavola sono cambiate. I grandi producer dance si sono messi loro stessi a fare pop, senza nasconderlo, anzi rivendicando uno status che li ha portati alla serie A della discografia, per popolarità, importanza mediatica, e ovviamente guadagni. Hanno cambiato abito, in un processo assolutamente naturale. Una mutazione genetica funzionale. Selezione naturale. Chi è rimasto al vecchio sound ha perso terreno, chi ha intuito il cambiamento sopravvive.

Alla fine, come previsto dagli hater, l’EDM è morta, e saranno finalmente felici. Ma non l’hanno uccisa loro, l’hanno uccisa gli stessi protagonisti, capaci di guardare oltre il proprio sound e di rinnovarsi, apparentemente uccidendo il bruco ma trasformandolo in realtà in farfalla. Beninteso, anche gli altri ecosistemi dance stanno bene, ce ne sono di interessantissimi e siamo felici di raccontarli.

Fonte : Djmagitalia