La dance è in crisi d’identità?

Nessuna hit memorabile, dj set stanchi e prevedibili, poche novità. Uno scenario inedito sul grande palcoscenico della dance
La dance è in crisi d’identità? | YOUparti
Foto: Matthieu Thoer

Che strana estate. Forse ci siamo abituati troppo bene o forse è solo una nube passeggera, ma questa del 2018 è stata certamente l’estate meno generosa da diversi anni in qua se parliamo di successi estivi, soprattutto in ambito dance. L’EDM ci ha ormai salutati da tempo (ma ci torniamo su), reggaeton e dintorni non sono una tendenza su cui fare affidamento, la techno spopola ma non è radiofonica, la house sembra il porto sicuro dove rifugiarsi quando c’è bonaccia e non spira alcun vento capace di soffiare lontano le vele di qualche idea o genere particolarmente fortunati.

La dance è in crisi d’identità? | YOUparti
Foto: Tomorrowland

Dunque, che succede? 
Esattamente quanto previsto da qualcuno un anno fa o giù di lì: i producer dance hanno visto uno spiraglio e hanno tentato di farcela nel pop. Qualcuno ci è anche riuscito, altri si sono clamorosamente arenati, in ogni caso il risultato è ciò che vediamo e sentiamo: un’estate senza successi. Certo, abbiamo i J Balvin, i Bad Bunny, c’è qualche Lost Frequencies e Tiësto a tenere botta, ma nulla di paragonabile alla vagonata di successi che possiamo snocciolare facile se pensiamo a qualsiasi estate tra il 2013 e l’anno scorso.
La parabola dell’EDM si è consumata come quella della dance anni ’90: arrivata all’apice alla metà del decennio, ha segnato il passo e si è fisiologicamente esaurita, vedendo anche delle mutazioni talvolta grottesche. Pensiamo a tutti i personaggi assolutamente eccessivi che sono saliti alla ribalta nelle ultime stagioni. Segno che se la dance è diventata estremamente popolare, accessibile, anche desiderabile, come mondo da frequentare e come immaginario, è in difficoltà nel trovare costantemente nuovi veri fenomeni. Diplo e Calvin Harris non nascono tutti i giorni. D’altra parte, vivendo e frequentando i mega festival così come i club di provincia – che poi sono il mondo vero, con il pubblico vero, quello che chiamiamo il Paese reale – ci si rende conto che spopolano i ritmi latini, reggaeton e dancehall in testa, ma a chi piacciono davvero? Più che una passione o una tendenza, l’impressione è che si tratti perlopiù di un contenitore facile da far digerire a un pubblico che sogna di essere sempre in vacanza, creando quell’effetto villaggio turistico capace di regalare evasione nell’epoca in cui l’invidia sociale è ai massimi, figlia dei social che ci fanno desiderare una vita a 5 stelle deluxe, come vediamo nelle foto degli influencer che vivono ai party e vivono di party (letteralmente). Così di fianco a pezzi effettivamente clamorosi (qualcuno ha il coraggio di dire che ‘Mi Gente’ non ha un tiro pazzesco?) ci tocca buttare giù alla goccia anche le imitazioni, gli ‘Amore & Capoeira’ della situazione (Giusy Ferreri è in effetti l’Italian dream del 21esimo secolo, da cassiera di supermercato a cantante da supermercato, stagionale, la sua voce ad accompagnare fissa le nostre estati con ritornelli improbabili e anche un filo offensivi tipo “amore e capoeira/come in una favela”, e risparmio il pippone culturale-sociologico su come siamo finiti a sentire in loop nelle radio “cachaça e luna piena”). Con tutto il rispetto per chi comunque ha i numeri e l’affetto del pubblico dalla sua, innegabilmente.

House e tech house, ovvero il colpo sicuro
Buona parte delle hit dance di quest’estate batteva il ritmo e il mood della house più classica, e della tech house, un genere che andò fortissimo nei primi anni ’00, quando tutto il boom e tutti i boom possibili per la musica elettronica degli anni ’90 erano al tramonto. Ci sono ottimi pezzi in giro, pensiamo a Fisher, Solardo, CamelPhat, Paul Woolford, Purple Disco Machine, Adam Beyer. Ma non possiamo affermare con forza che si tratti di un fenomeno del tutto nuovo. Anche due pesi massimi come Calvin Harris e David Guetta hanno virato in direzione house, il secondo in particolare con il mixtape firmato Jack Back si concede una lunga escursione nel genere (al netto di un album che divide con chiarezza la produzione pop da quella da club), ed è uscito con ‘Drive’ insieme a Black Coffee. La house è un colpo sicuro, in un momento in cui non esiste il sentore di nessuna next big thing in arrivo e ogni mossa potrebbe essere un passo falso. Underground is back.

La vendetta dell’underground
La verità è che in questo periodo si sta consumando prepotente e feroce la rivincita dell’underground, con i festival techno che fanno il pienone e i suoi artisti simbolo osannati come non mai. Le nostre cover da gennaio a oggi hanno parlato quasi esclusivamente house e techno, per dire. Le line up dei festival e dei club vedono gli eroi techno sempre più in alto. Manca una componente pop. Ci manca l’EDM degli anni d’oro, quella capace di fare incazzare chi la vedeva come la musica dei ragazzini e di far sognare chi invece ci leggeva la grande epopea che effettivamente è stata. In ogni caso, un elemento capace di generare una reazione. Il problema è che oggi molti set del genere sono ormai la stessa proposta riscaldata al microonde e resa imbarazzante dal tempo. Guardando e ascoltando i set di qualsiasi festival di quest’estate, l’impressione era proprio quella di ascoltare un revival in anticipo. Hit e remix di hit degli ultimi sei, sette anni. L’immancabile tributo ad Avicii ogni ora. I sample di questo e quel brano e poi un drop a caso. Set che qualunque dj del discobar di paese avrebbe messo insieme. Uno sguardo a 1001 Tracklist conferma il trend per qualsiasi festival. E questo è proprio un problema, perché la dance tutta negli ultimi dieci anni aveva vissuto una nuova primavera, fertile e creativa come in poche altre stagioni in passato. Il calo è fisiologico ma non ci sono giustificazioni di fronte a tutti questi set identici, senza un minimo di ricerca e innovazione. Fa un po’ paura pensare che si sia finiti a fare un revival in tempo reale di un genere che solo tre, quattro anni fa stava vivendo il suo momento migliore.

Se il salvatore è Ganacci
In questo scenario, viva Salvatore Ganacci. Si è molto parlato di lui e della sua curiosa performance, messa in luce dal set su un palcoscenico importante a livello mondiale come quello di Tomorrowland. Ganacci ha sollevato un polverone infinito tra chi lo considera un simpatico fenomeno che ironizza sul suo stesso mondo, quello di una dance mainstream sempre più caratterizzata da personaggi che sembrano avatar di film della Marvel, e chi lo ha messo in croce perché un dj non dovrebbe sputtanare la categoria con queste pagliacciate. Ciascuno la veda come preferisce. Ma a mente fredda e con il senno di poi, è il sintomo di un cortocircuito, di un sistema che si è messo ad alzare l’asticella dello spettacolo e forse l’ha alzata un filo troppo. E in tutto questo il Ganacci della situazione, che ha alle spalle un background bello solido, diventa colui che grida “il re è nudo”. Facendoci riflettere. Perché intendiamoci, lo spettacolo va benissimo, è funzionale. Ma dev’essere supportato da una controparte musicale ineccepibile. Altrimenti vale tutto. Beyoncé fa uno show tutto da vedere, ma lei, la band e i pezzi sono impeccabili. Invece alcuni settori della musica da club (o meglio da festival) si ritrovano gonfiati dagli anabolizzanti ma ormai flaccidi, incapaci di regalare le emozioni dei giorni migliori e costretti a inseguire se stessi con le superstar che suonano ancora ‘I Follow Rivers’ e gli Yeah Yeah Yeahs remixati da A-Trak.

L’estate sta finendo, inizia una nuova stagione di musica. Novità strabilianti all’orizzonte non se ne vedono, sono tornati David Guetta e Calvin Harris, la Swedish House Mafia sta per riprendersi la scena. Tutto molto 2013. Chissà che non ci sia un’idea rivoluzionaria in giro. Magari, semplicemente, è nel computer di qualche ragazzino, e noi non l’abbiamo ancora sentita.